Benvenuti in questo secondo articolo della serie Design Diaries nella quale analizzo la struttura e l’evoluzione di Adventure Squad, l’esperienza 5e accessibile a tutti: senza master, senza preparazione, in poco tempo e con regole semplici.
Trovate il precedente articolo a questo link.
In questo articolo voglio condividere con voi alcune riflessioni sulla struttura di un’avventura di Dungeons and Dragons che mi hanno portato alle scelte di design relative al mio gioco: consiglio questo articolo non solo ai game designer di oggi e di domani, ma anche ai Dungeon Master e agli scrittori di avventure per poter riflettere assieme sulla natura intima di una partita.
Una doverosa premessa
In questo articolo rifletterò sulle avventure del gioco di ruolo più famoso del mondo come se ci fosse un unico, monolitico modo di giocare. Sappiamo tutti che non è vero: Dungeons and Dragons infatti lascia moltissima libertà ai master di organizzare le loro avventure e proporre situazioni di gioco anche molto differenti tra loro. Di conseguenza, le mie saranno analisi di massima: cercherò di porre luce su quelli che sono gli elementi più diffusi e condivisi all’interno della tradizione di gioco, pur sapendo che l’inventiva dei singoli narratori potrebbe aver portato le vostre avventure verso lidi molto, molto molto più originali!
Devo inoltre precisare che ragiono per avventure e non, ad esempio, per location: mi riferisco infatti a quel modo di giocare nato negli ultimi decenni nel quale il focus del gioco è sulla storia.
I ragionamenti che farò quindi si applicano male al gioco old school nel quale il focus può essere un’incursione in un luogo pericoloso alla ricerca di ricchezze in cui il ritmo del gioco non è drammatico, legato alla storia. Tuttavia, come vedremo, l’uso strategico del tempo in questo stile di gioco trova dei punti in comune con la mia analisi…
L’essenza dell’avventura
Per riproporre l’esperienza di D&D in un tempo molto contenuto sono stato costretto a chiedermi: com’è fatta un’avventura?
Innanzitutto è necessario cercare di delimitare, quanto meno nel tempo, cosa sia un’avventura: essa può durare una o più sessioni, essere indipendente o vivere all’interno di una più vasta campagna, ed è in generale delimitata da un inizio e una fine.
Questo accade anche in un film o in una storia qualsiasi: si parte da una situazione iniziale interessante, c’è uno svolgimento e si arriva a una risoluzione finale.
A livello narrativo, l’inizio dell’avventura si può trovare in quell’evento che porta i personaggi ad affrontare il resto: può quindi trattarsi di una missione che viene loro fornita, come la sconfitta di uno specifico avversario o il ritrovamento di un informazione, un oggetto, la messa in sicurezza di un luogo.
Può anche esprimersi nella presenza di una situazione nella quale i personaggi si trovano e che hanno intenzione di risolvere, come l’essere sotto attacco, catturati, perduti o naufraghi
La fine naturale dell’avventura e quindi il contraltare dell’inizio: quella specifica avventura è conclusa se la missione è stata portata a termine o se la situazione ostile alla quale sia soggetti è finalmente risolta.
Tra l’inizio e la fine di un’avventura giace il suo svolgimento: è in questa porzione che la natura del gioco viene fuori in maniera preponderante, è qui che si applicano le sue regole ed è qui che giochi differenti portano più evidentemente a esperienze differenti.
Nello specifico del gioco di ruolo più famoso del mondo, sono, secondo i suoi autori, tre i pilastri sui quali un’avventura di regge: il combattimento, l’esplorazione e l’interazione sociale!
Le sfide!
Mentre sullo scontro non mi dilungherò, visto che presenta un vero e proprio sottosistema di gioco abbastanza indipendente e che il suo ruolo è piuttosto ovvio, vorrei invece andare a sviscerare in che modo gli altri due pilastri si intersecano con la prosecuzione della storia.
Al di fuori del combattimento, infatti, i giocatori raccontano cosa fanno i personaggi e il master descrive le conseguenze delle loro azioni: questo prosegue fino a che non ci si trova di fronte a un’azione dall’esito incerto.
Queste possono possono corrispondere a ostacoli sulla strada dei personaggi che impediscono loro di raggiungere il loro obiettivo, oppure potrebbero essere delle opportunità secondarie che i giocatori scorgono per ottenere un vantaggio successivo.
A questo punto il master ha sostanzialmente due modi di gestire l’incertezza: il primo è più flessibile, più “morbido”, ovvero fare riferimento al suo bagaglio culturale per decidere in maniera autonoma dal corpus delle regole se un’azione va a buon fine oppure no.
Questo approccio è molto diffuso nelle interazioni con i personaggi non giocanti: capiterà infatti spesso che il master decida come una comparsa risponda o reagisca all’interazione con un PG semplicemente valutando, giudicando come il suo giocatore si è posto nella conversazione.
Per lo stesso motivo il master potrebbe evitare di ricorrere a un tiro di dado di fronte a un’azione che reputa molto astuta, come nascondersi all’interno di un barile, oppure molto stupida, come cercare di saltare un baratro eccessivamente ampio.
Accanto a questo approccio alla risoluzione dell’incertezza c’è quello che compone il regolamento proprio del gioco: i tiri di dado.
Questi tiri trovano il loro spazio sia nelle fasi più esplorative, dove la fanno da padrone, che quelle più puramente sociali, dove un tiro può alterare l’atteggiamento di un personaggio nei confronti dei protagonisti oppure essere usato per giocare o intuire un inganno.
Tuttavia, tutte queste situazioni trovano un problema intrinseco…
Le conseguenze del fallimento
Se fallisco un tiro in combattimento questo altera, in maniera diretta o indiretta, la distanza tra l’attuale situazione e la vittoria di uno degli schieramenti: visto che gli avversari non sono che un’ostacolo, meccanicamente più complesso di altri, nello sviluppo della storia, nel momento in cui dovessero vincere i personaggi, la storia prosegue.
La vittoria degli avversari determina invece spesso la sconfitta definitiva dell’intero gruppo e il fallimento della missione.
Ma che succede invece se fallisco un tiro di abilità in un contesto di esplorazione o interazione sociale? Questo evento non impedisce quasi mai lo sviluppo della storia in maniera definitiva: in alcuni casi posso subire danni diretti o condizioni che mi sfavoriscono nelle prove successive, oppure far scoppiare uno scontro altrimenti evitabile, ma quello che accade più spesso é che semplicemente mi sono bruciato una fra infinite possibilità di andare avanti, ma basta girare dietro l’angolo per trovare un’altra soluzione soddisfacente: talvolta non ci sono proprio conseguenze, e io posso semplicemente, come nel caso dei tentativi di apertura di un baule chiuso in un contesto sicuro, limitarmi a ripetere la prova finché la fortuna non mi arride.
In entrambi questi ultimi casi, in realtà, sebbene non abbia intaccato le mie risorse, io ho perso tempo: sicuramente, tempo al tavolo, tempo della mia vita che potevo investire altrimenti, ma anche tempo in gioco.
Solo che, spesso, questo tempo perso in gioco ha poche conseguenze, se non nessuna.
La proposta di Adventure Squad
Uno dei punti focali di Adventure Squad è regolamentare questo tempo: i giocatori hanno una vera e propria barra dei “Punti Tempo” che si consuma quando essi falliscono le prove, con l’idea che, attraverso una strada alternativa o la ripetizione di un’attività, la sfida verrà comunque superata in qualche altro modo, ma al costo di tempo prezioso per la missione.
Qui infatti voglio sottolineare che, narrativamente parlando, la sconfitta sul campo di battaglia non rappresenta l’unica minaccia al lieto fine dell’avventura, ma anche le scelte avventate o gli errori consecutivi possono realisticamente impedire una risoluzione vittoriosa; quello che i personaggi cercavano semplicemente non è più lì, oppure le condizioni avverse li hanno sfiancati, o ancora hanno perso l’unica opportunità per togliersi da un pasticcio.
Alla luce di questa analisi, per la rispettare la sua promessa di giocare in tempi stretti e senza preparazione, Adventure Squad punta all’essenza dell’avventura: fornisce infatti ai giocatori delle strutture di missione che presentano un inizio definito e che proseguono poi con fasi, chiamate Scene, di Combattimento e di Esplorazione (all’interno delle quali sono presenti anche le interazioni sociali).
Senza un master al quale sottoporre il giudizio di una scelta, i giocatori affrontano, nelle scene di Esplorazione, una serie di prove la cui risoluzione è mediata dal tradizionale tiro di dado sommato ai punteggi dei personaggi e confrontato con una difficoltà: il fallimento di tali prove determina una perdita di punti tempo che mette in pericolo la riuscita della missione.
Questa struttura leggera e flessibile delle avventure permette di aggiungere scene speciali, regole e meccaniche specifiche diverse per ciascuna avventura, in modo da rendere l’esperienza sempre nuova, senza sovraccaricare i giocatori con un carico di regole iniziale troppo vasto.
Ma quale spazio ha la narrazione emergente in questo schema? In che modo le scelte dei giocatori incidono sul finale?
Lo scoprirete la prossima settimana nel successivo Diario di Design!
Lascia un commento